TRATTO DA "SCACCO AL RE"


LA CASA NEI CAMPI

 

La casa di Antonio ha un fascino arcano, sembra parte di un affresco settecentesco. Ha l’aria dei tempi andati che ancora rimandano la loro eco attraverso sottili percezioni captate involontariamente dai nostri sensi.
Si trova nella splendida campagna piacentina a poca distanza da quel gioiellino in stile medioevale, sebbene finto, che è Grazzano Visconti.
Le colline appaiono in lontananza, lontananza che nelle limpide giornate di sole magicamente sembra ridursi fino a renderle parte integrante dei campi limitrofi. Dalla finestra si ha l’impressione di poter, tendendo una mano, sfiorarne le verdi pendici.
Una leggera corrente lambisce perennemente queste terre spazzando le fastidiose nebbie autunnali e rendendo meno opprimenti le calure delle notti estive.
Ricordo ancora il giorno in cui Antonio, allora in cerca di una casa e con tanta voglia di cimentarsi in una nuova vita da single, vide per la prima volta la costruzione.
Era abbandonata da non so quanti anni, i rovi si erano impossessati del giardino, le piante avevano allungato le loro radici oltre i muri perimetrali, ragni ed altri insetti vi avevano creato il loro rifugio.
L’agente immobiliare lo accompagnò all’interno spingendo con forza una porta di legno consumata dalle intemperie e gli mostrò il malconcio piano terra composto da varie stanzette ricavate in epoche diverse.
Negli anni della guerra era stata divisa in due abitazioni distinte, ad una si accedeva dal lato ovest mentre all’altra dalla parte opposta.
Era stata una residenza signorile. Faceva parte di un gruppo di costruzioni della Contessa Miglio, cinque per la precisione, ed ognuna riportava sulla facciata principale, con grossi caratteri in cotto, il numero progressivo ed il nome della casata.
La sua era la prima, quindi la “PRIMA MIGLIO”.
Le lettere, tranne la A di PRIMA andata distrutta col passare degli anni, erano ancora attaccate, anche se scrostate e malridotte.
Alla vista dello stato di degrado nel quale si trovava la dimora, Antonio trattenne la sua delusione.
Il ragazzo dell’agenzia lo condusse al primo piano e qui le cose sembrarono leggermente diverse.
Spalancate le ante delle finestre rivolte a sud, una corona di colli verdi ed armonici diede sfoggio della propria bellezza stagliandosi sulla sporca parete giallastra, come fosse un dipinto d’autore su un anonimo muro.
Il pavimento di mattonelle in marmo di vari colori, tipico degli anni trenta, rimbombava ad ogni passo perchè poggiava su un sottofondo in paglia e cemento.
Le condizioni generali dei muri apparivano discrete e le travi, coperte di vernice avorio, una volta trattate potevano senz’altro essere riutilizzate.
Sempre che venisse acquistata! Perché Antonio ancora non era convinto, forse spaventato dalla cifra richiesta dal proprietario e da quella, certo ancor più consistente, per i necessari lavori di ristrutturazione.
L’illuminazione arrivò appena si giunse all’ultimo piano, il classico solaio.
Classico per case come questa, ma non per tutte quelle che punteggiano con strategica irregolarità la campagna e che sono decisamente più modeste.
Era alto, vi si camminava eretti anche nel punto più basso ed aveva un gioco di travi così bello da togliere il fiato.
Quattro colonne di mattoni in cotto reggevano questo scheletro di tronchi creando un ambiente già arredato dalle sole ragnatele.
Antonio fu colpito al cuore da tale spettacolo; girava per l’enorme stanzone, guardava da ogni piccola finestra le meraviglie del circondario, alzava ripetutamente gli occhi al soffitto, si sporgeva sulla tromba delle scale, tastava le colonne… e finalmente prese la sua decisione.
Il giorno della firma del rogito, finite le operazioni burocratiche presso il notaio, insieme al comune amico Dante, ci recammo sul prato davanti all’ingresso del Palazzo, così affettuosamente avevamo ribattezzato quei muri abbandonati, e stappammo una bottiglia di champagne bevendola in gialli bicchieri di plastica. In segno di buon augurio ne lanciammo uno pieno contro la casa, un po’ come si fa al varo di una nave.
Alla fine, con la bottiglia vuota tra le mani, facemmo un autoscatto che ho attaccato a un pensile della mia cucina.
Dopo ciclopici lavori, molti dei quali svolti con grande abilità da un sorprendente Antonio, il Palazzo è tornato agli antichi splendori. Anzi a splendori forse mai conosciuti in passato! Il novello mastro di muro ha inserito, in corso d’opera, archetti in mattoni, pavimenti in assito color noce, pareti in vetrocemento conferendo agli ambienti una nuova nobiltà.
Anche l’aspetto esterno è stato ampiamente rivalutato.
Un porticato ripara la porta d’ingresso e permette di godere stupendi tramonti dalla sedia a dondolo, o di pranzare all’aperto nelle giornate estive, anche in caso di pioggia.
Antonio è orgoglioso della sua creatura e se le mura potessero parlare avrebbero la sua voce.
Credo che un po’ del nostro essere venga assorbito dall’ambiente in cui viviamo, sia che si tratti della nostra casa come della nostra città.
Non è assurdo ciò che affermo, penso di non essere l’unico al quale accada di visitare ambienti che trasmettono onde positive ed altri invece inquietanti e negativi senza una ragione apparente. Vi sono città che bisbigliano storie ad ogni angolo di strada rendendoci quasi involontari protagonisti ed altre che, al contrario, ci fanno sentire a disagio, fuori luogo, come fossimo un granello di polvere nello spazio infinito.
Probabilmente la casa di Antonio possiede un glorioso passato che deve aver sussurrato all’orecchio dell’amico qualcosa di speciale e presumibilmente i muri del maniero assorbiranno ancora piacevoli racconti da narrare in futuro, come un cantastorie medievale.
La strada d’accesso è purtroppo ancora sterrata, piena di buche che alla prima pioggia si trasformano in enormi pozzanghere e dipingono di terra le auto in transito così uniformemente che del colore iniziale resta solo il ricordo.
Piccoli fossi la costeggiano e in primavera le sponde si riempiono di viole e margherite. Nell’acqua che scorre per irrigare i campi trovano ambiente ideale le rane che col loro gracidare, unito al frinire dei grilli, mutano il silenzio in una gradevole colonna sonora estiva.
Ora il giardino, pur non essendo curato come le aiuole di Versailles, non ha più l’aspetto di una selva incolta dove farsi largo con il macete.
Un gruppo di cespugli di rose resta fiorito anche nei mesi invernali, sono di un rosso porpora simile al velluto. Quando Dante, cimentandosi nel giardinaggio con estro e passione, le piantò avevano tinte diverse: rosa, gialle, arancio, bianche e rosse.
Ma col passare delle stagioni hanno lentamente cambiato aspetto e adesso sono tutte uguali ma allo stesso modo belle e profumate.
Un grosso noce sta alla sinistra del porticato ed una casetta per gli uccelli è appesa ad un ramo. Mai nessun volatile mise però piede nella piccola costruzione in legno, nonostante il becchime venisse costantemente sistemato nelle vicinanze.
Forse anche ai pennuti il senso di libertà trasmesso da queste terre proibisce l’uso di un rifugio troppo civilizzato e forse la scelta di una fronda selvaggia è un richiamo più suadente.
Numerose piante da frutta, ormai adulte, creano una piacevole cornice boschiva al Palazzo e forniscono alla mensa del proprietario albicocche, kiwi, uva, susine, cachi, mele e melograni.
L’orto, anche se in convivenza con svariate erbe di campo, lo mantiene a verdura per tutto l’anno e, nel culmine della stagione, mantiene anche gli amici che lo vanno a trovare.
E’ proprio vero, quando ce n’é, ce n’é per tutti.


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